
Centomila persone, come una citta'.
Una citta' allegra, vitale.
Adesso morta, inesorabilmente.
Franata tra le crepe di un terremoto spietato che ha deciso di colpire una delle zone piu' povere, ma piu' dignitose del pianeta.
Haiti, uno stato a cui l'immaginario collettivo ricollega musica, sole.
Haiti, adesso tragedia, niente, e' finita.
Pianti, urla disumane, urla di rabbia prima che di dolore.
Di rabbia per aver visto il mondo crollarti addosso.
Urla che riecheggiano quelle d'Abruzzo.
Urla indimenticabili, a volte persino strozzate.
Urla di chi ha perso tutto e non se ne fa una ragione.
Urla di chi forse non ricomincera' mai a vivere, al di la' dei buoni propositi e degli aiuti.
Questi morti pesano, perche' ci riportano brutalmente alla dimensione della poverta'.
All'immagine della capanna che non si regge , di un tetto di alluminio, di un giaciglio improvvisato inghiottito dalla crudelta' della terra, che dispensa frutti per far vivere, che crea bellezze floreali, che ci permette di camminare, ma che uccide, che tradisce.
La terra a cui tanto tieni, quella ti riprende , come una matrigna .
E a seppellirti non sono i tuoi cari, ma ti inghiotte.
Questi morti numericamente pesano, dicevo.
Pesano molto di piu' di quelli abruzzesi.
Ma forse moralmente no, perche' sono morti lontani.
Eppure le urla sembrano vicinissime.
Non dimentichiamoci di questi morti, davvero.
Piangiamoli come nostri fratelli, perche' erano nostri fratelli, come quelli scacciati da Rosarno.
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