
Mi è capitato in questi giorni di andare a vedere “Somewhere” di Sofia Coppola.
Che dire…Grandi aspettative: Venezia, Coppola ( figlia di un certo Francis Ford).
Insomma, pensavo di andare a vedere un cosiddetto “film di spessore”.
L’atteggiamento, in genere, quando si va a vedere un “film di spessore” richiede un certo impegno, magari un paio di occhiali colorati e una sciarpetta alla Zeffirelli.
Ero nel mood, cavolo.
Mi sentivo quasi Claudio G. Fava. Con la G. puntata, quei nomi misteriosi e affascinanti tipo Cinzia Th. Torrini.
Ecco, mi seggo al posto, composto per di più, e parte il film.
98 minuti di assoluta banalità, svergognata, sfacciata banalità.
Intendiamoci, Stephen Dorff è molto bravo a fare quello che va più veloce della vita, più veloce di tutto.
Così veloce da rompersi dentro e riscoprire l’amore per la figlia.
Ma la storia è fragilissima, di cristallo.
E’ una sorta di “the Wrestler” meno bello, meno convincente, senza Mickey Rourke al top e senza la truce verità di un mondo inesplorato come quello del wrestling di serie B.
“Somewhere” si fa apprezzare solo per le inquadrature profonde anche concettualmente e per i silenzi ostentati.
Comunque non merita.
Il finale è frettoloso e improvvisato, lo spettatore resta come chi, dopo aver visto un frigorifero stracolmo di leccornie, venga mandato al letto senza cena.
E’ un finale crudele per l’intelletto, mortificato dall’insulsa semplicità.
Io stimo Quentin senza riserve, però premiare con il Leone d’oro “Somewhere” può voler dire solo due cose:o gli altri film in concorso erano agghiaccianti oppure Quentin ha amato Sofia davvero tanto, ma tanto.
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