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"Il Sordo", un racconto di Salvatore Mongiardo

Il Sordo

            Al secolo era Bruno Frustaci, ma tutti lo chiamavano il Sordo di Cacca, e perché ci fosse l’appellativo di Cacca nella sua parentela, è questione controversa. A me sembra che l’origine sia da ricercare nella parola greca kakòs, cattivo, per il carattere spigoloso che avevano in famiglia. Il Sordo è morto vecchio nei primi anni Cinquanta: io lo ricordo seduto davanti alla porta di casa, che stava accanto a quella di don Raffaele Valenti, l’esattore.
Il Sordo era un vecchio molto bello. Aveva gli occhi di forte azzurro cobalto, e portava la barba lunga riccioluta come i Bronzi di Riace. Portava le fasce alle gambe e in testa un berrettino all’antica.
            Da giovane si fidanzò con Mariantonia Colaviti. Andò a lavorare alla mietitura, nel Marchesato di Crotone, dove contrasse la perniciosa, la temuta febbre malarica, e diventò sordo. Mariantonia non voleva più sposarlo e lui andava dicendole: Quandu era bùanu mi volisti e mo chi sugnu surdu hai u mi vua puru. Si piazzò davanti a casa di lei con un bastone e minacciava tutti gli uomini che si avvicinavano, anche i giornalieri che andavano a cercare lavoro dai genitori di lei, che la convinsero a sposarlo per il quieto vivere.
           
            Ebbe un solo figlio, Francesco, che emigrò in America e morì nel New Jersey. Per campare la piccola famiglia, il Sordo pascolava una ventina di capre e coltivava un appezzamento della famiglia Jannoni piantando grano, fave e orzo. Aveva un piccolo stazzo a Puntifaga, appena fuori Sant’Andrea, dove chiudeva le capre, che nell’alluvione del 1929 annegarono tutte meno il caprone, u zzìmmaru, che si salvò salendo sul davanzale dell’unica finestrella.
            Da allora il Sordo prese l’abitudine di intercalare dicendo: Mannaja n’acca, mannaja n’acca… Voleva dire: mannaggia l’acqua che gli aveva ucciso le capre, ma lui cambiava la elle in enne senza rendersene conto per la sordità, e così facendo diventò la prova vivente della regola fonetica che si chiama scambio di consonante liquida. Il Sordo era analfabeta e non si interessava di queste sottigliezze, ma pensava piuttosto a recuperare un po’ di soldi per le capre morte nell’alluvione andando in municipio e insistendo per un indennizzo. Alla fine il segretario comunale scrisse al figlio in America, pregandolo di mandare dei soldi da dare al padre facendo finta che venivano dal governo italiano. Quando i soldi arrivarono, il Sordo li prese contento di aver vinto: Vincivi, vincivi! E li mise nella calza che faceva da salvadanaio, tanto lui non spendeva nulla. Dopo la seconda guerra mondiale arrivò la lira di carta che il Sordo rifiutava ed esigeva i nichel con la testa del re: Vittorio, Vittorio… La ricchezza per lui era costituita da tre cose: formaggio, ricotta e latte.
           
            Un giorno sorprese qualcuno che gli rubava le fave e gli morse le dita così forte che quasi gliele staccò. Per paura di essere arrestato fuggì e si nascose per tre giorni presso il convento dei francescani di Badolato.
L’episodio più celebre è quando chiese alla moglie di prendere la limba, il recipiente largo e basso che si usava quando si scannava il maiale per raccogliere il sangue: Marantùani pijja a limba, pijja a limba u scannamu a Cola u Turchju. Cosa che ovviamente non successe. Le capre mangiavano dove potevano, anche rami di ulivi, e i proprietari degli alberi andavano in furia. Così era successo con Nicola il Turco. 

            Il Sordo sembrava un uomo insensibile e duro, e invece era sentimentale e impressionabile. Bruno Stillo una notte gli prese la vicenda alla fontana, cioè il turno di riempire i recipienti, facendogli vedere un pupazzo legato a un filo che spaventò il Sordo. E una sera di Natale fu sopraffatto dalla malinconia pensando ai guai dei suoi fratelli e della sorella che si chiamava come la moglie: Famijja sfortunata! Io surdu, Salvatore zzùappu, Cciccu cecatu e Marantùani guercia!
           
            Mio padre mi raccontava che una notte il Sordo si alzò per andare alle capre e sentì un canto venire dalla Chiesa matrice. Il Sordo si chiese chi poteva essere a quell’ora, salì la lunga scala della chiesa e vide che la porta era aperta. Uomini da una parte e donne dall’altra assistevano alla messa coperti di lenzuolo bianco e tenevano il dito indice acceso come una candela. Il Sordo capì di essersi introdotto nella messa dei morti, che a mezzanotte uscivano dalla torre ossario dell’orologio per assistervi. Gli si accapponò la pelle e stava raccogliendo le forze per scappare via, quando il celebrante, un prete di Sant’Andrea morto da poco, si girò verso i fedeli per dire: Dominus vobiscum… Vide il Sordo vestito come i vivi e disse: Ma tu, Sordo, non sei ancora morto! E ordinò ai defunti: Prendetelo! Il Sordo schizzò via e, per non perdere tempo a scendere dalla scalinata, si buttò dal ballatoio sulla piazza dove fu trovato tramortito al mattino.

            I pastori di Sant’Andrea avevano un dovere verso i marchesi Lucifero, dovevano lavorare gratuitamente alla tosatura delle pecore, a carusa. Il marchese aveva una mandria di quattrocento pecore che dovevano essere carusate prima di mandarle per l’estate al fresco dei pascoli di montagna alla Lacina. La prestazione gratuita era dovuta per i pascoli abusivi che i pastori a volte facevano nelle terre del marchese. Un anno, poteva essere il 1948 e io avevo sette anni, andai con  mio padre alla carusa che si svolgeva davanti al barco chiuso. Mio padre doveva affilare le cesoie che si rovinavano facilmente tagliando la lana impastata di fango e polvere. Il Sordo guidava le operazioni da esperto distribuendo il lavoro. All’ora di mangiare, ci sedemmo all’ombra di un albero e il Sordo ridendo mi offrì sulla lama del suo coltello formaggio pieno di vermi, considerato una leccornia. Era una prova di coraggio cominciare a mangiarlo, e per quanto io fossi il bimbo più ubbidiente del mondo, rimasi senza accettarlo bloccato a guardare i vermiciattoli che si agitavano. Mi venne in soccorso mio padre che prese il formaggio e lo mangiò. Io rimasi ad ascoltare il canto delle cicale nell’immobilità del meriggio della prima estate. Il giorno dopo le pecore salirono l’impietrata verso la montagna, quasi vergognose di mostrarsi nude, senza la lana che le copriva. Assieme ai pastori, le pecore erano scortate da grossi cani da mandria che portavano collari irti di chiodi per difendersi dagli attacchi dei lupi.
           
            Quando la moglie si ammalò, il prete, don Ciccio Cosentino, andò a darle l’estrema unzione. Ma il Sordo insisteva che era inutile, perché la moglie era sana in quanto la sua urina non era scura: Marantùani on mora, a pisciazza è chiara, a pisciazza è chiara… Il prete dovette interrompere il sacramento per il ridere, e comunque la moglie non morì in quella circostanza. Persone e storie di un mondo che fu duro ma bellissimo, e riemergono dalla memoria per porgervi assieme a me i migliori auguri di una serena Pasqua.

            Ringrazio l’amico Pasqualino Frustaci, che mi ha dato molti elementi per poter scrivere dello zio, e dedico questo racconto al mio piccolo amico Lorenzo Nardelloto, che a Milano ha ascoltato con occhi spalancati le imprese del Sordo.


Pasqua 2011                                                 
                                                                                  Salvatore Mongiardo

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