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Don Massimo Alvaro.L’ultimo grande protagonista e l’ultima memoria di un mondo sommerso

(Articolo del Prof. Vito Teti, pubblicato dal "Quotidiano della Calabria" del 13 giugno 2011)

Don Massimo Alvaro è stato, forse, il personaggio alvariano più affascinante e riuscito. Non tanto nel senso che era la memoria vivente, discreta, silenziosa, sobria del grande scrittore di S. Luca e dei suoi familiari. In un senso più profondo e radicale. Con la sua aria inquieta, gli occhi celesti immobili, il suo senso della precarietà e dell’incompiutezza, il suo essere sempre fermo e sempre altrove, ironico ed autoironico, con quel suo apparire sempre fuori posto e di passaggio in questo mondo, egli si presentava come un personaggio uscito o disceso dalla pagine di Corrado Alvaro.  In realtà, accadeva il contrario, era don Massimo a salire e ad entrare con delicatezza, per il suo carattere, nelle pagine, nei racconti, nelle poesie, nelle storie, nelle memorie di Corrado Alvaro. «La favola della vita mi interessa ormai più della vita»: così Alvaro concludeva il suo bellissimo diario “Quasi una vita”. Per Alvaro la letteratura era vita e la vita era letteratura. La sua scrittura è stata densamente antropologica e la sua famiglia, suo padre, sua madre, i fratelli, le sorelle, la moglie, il figlio, erano i personaggi delle sue “memorie di un mondo sommerso”. Don Massimo si divertiva a segnalarmi le pagine e i passi in cui Alvaro parlava di lui, ma la sua felicità consisteva quando mi vedeva stupito nell’indicarmi dove lo scrittore parlava di lui “camuffandolo”, trasfigurandolo, quasi proteggendolo come si fa con i fratelli minori, di cui non si rivelano i segreti.
Ricordo, tanti anni addietro, una visita in compagnia di due suoi e miei grandi amici, Sharo Gambino e Annarosa Macrì, a Caraffa del Bianco, dove ha abitato ed è stato per una vita parroco e canonico (ma è stato anche parroco di S. Agata, Casignana, Pardesca). Parlava e raccontava, e ci mostrava le poche carte e le poche foto del fratello, quanto gli era rimasto dopo che il fondo alvariano era stato consegnato al figlio dello scrittore, Massimo e poi donato alla “Fondazione Alvaro”. Viveva in una casa, a fianco della chiesa, in camere ampie, quasi disadorne, incompiute, a volte con pavimento in cemento e con mura senza intonaco, un lettino semplice, la scrivania con tante carte in disordine e qui e là qualche oggetto sacro. Le finestre della casa erano riparate alla meglio. Ci mostrò la finestra in direzione di S. Luca da dove Alvaro si era affacciato l’ultima volta che era venuto in Calabria e che non se l’era sentita di tornare nel suo paese. Un rapporto di “odio” e amore quello di Alvaro ( capita a tutti i grandi con il loro luogo di nascita), per il quale, però, San Luca e l’Aspromonte, Polsi e la sua gente, sono rimasti punti ineludibili nei suoi scritti e nei suoi ricordi. In fondo Alvaro, non si è mai “allontanato” dal suo universo di origine.
Quasi per anticipare una nostra domanda o per venire incontro a una nostra curiosità, quel giorno Don Massimo, ci disse: «Sono venuto in questo paese, in questa casa, con un incarico di tre mesi. Ci sono rimasto una vita, quasi settant’anni e sempre in attesa di andarmene. Ma trovavo sempre ragioni o me ne capitavano per restare. Rimandavo la partenza sempre a domani e così non sistemavo mai la casa definitivamente» e, mentre parlava, con la sua voce accattivante, gli occhi gli brillavano e sorrideva con dolcezza, non si capiva se per indulgenza o ammirazione, per ironia o rassegnazione nei suoi confronti. Mi parve che fu allora che gli dissi: «Don Massimo, sembrate un personaggio di Alvaro». E allora cominciò ad aprirsi e mi raccontò come a lui che pensava Alvaro nello scrivere la stupenda nota di viaggio “Povertà non è miseria” in “Un treno del Sud”, dove parla di una signora e di suo figlio che «aspettano da dieci anni di trasferirsi in un paese delle marine. O forse in città. Perciò da dieci anni non si sono curati di mettere i vetri alle finestre e una serratura alla porta». Era un tratto dell’antropologia del calabrese. E così Alvaro commentava: «Molti atti che ai nostri occhi d’uomini evoluti possono apparire assurdi, hanno per la società calabrese tutt’altro valore. Occorre entrare, per capirli, in una sorta di spirito religioso e intimo in cui le parole ricordo, dimenticanza, pensiero, hanno un valore che occupa una vita. E così tutto accade lentamente, o non accade mai. Perché tutto è provvisorio. Perché tutto si può aspettare all’infinito. E molte cose si riducono a favole».
Don Massimo ricordava a memoria e recitava, con religiosa concentrazione, brani e poesie di Alvaro. Quando parlava del fratello scrittore lo chiamava «Alvaro», quasi parlasse di un autore estraneo e come non volesse assumersi meriti particolari soltanto per un rapporto di parentela. E quando invece parlava del fratello più grande di lui di diciannove anni (Corrado era nato nel 1895 e don Massimo nel 1914, c’erano poi le sorelle Laura e Maria e il fratello Beniamino, medico, e Guglielmo, avvocato), allora diceva Corrado e lo ricordava fratello maggiore e generoso. Aveva, don Massimo, un fare modesto, un’aria timida, e coltivava il senso dei meriti, dei ruoli, del rispetto, del rispetto. Non tollerava confusioni e approssimazioni e con un’etica alvariana non amava opportunismi e retoriche.  All’apparenza, a uno sguardo superficiale, ti dava l’impressione di un antico e dignitoso “prete di campagna”, poco colto e poco dedito alle lettere, ma poi ti accorgevi che aveva letto e non poco, conosceva la letteratura contemporanea, gli autori e i critici di Alvaro e capivi che si era sottoposto a una sorta di sforzo intellettuale quasi per fare bella figura al fratello scrittore, come se avesse avuto l’incarico di onorarne la memoria. Era, in fondo, un aristocratico della parola e del gesto, un curioso “intellettuale” per necessità, con un grande spirito critico e un forte senso del limite. Non era sempre contento di quanto scrivevano tanti studiosi di Alvaro, e quando ti chiedeva cosa  pensassi di qualcuno, sapevi già quale era il suo punto di vista, e ti attendevi un sorriso di compiacimento o una risata di distanza.

Non ho tempo e nemmeno voglia (adesso) di guardare nei miei appunti o di ascoltare le registrazioni per ricordare gli incontri con don Massimo, che sono stati tanti e periodici, soprattutto nella casa del figlio della sorella Maria, Mario Saccà, a Bovalino e poi, dopo la morte prematura di questo amato nipote, a Siderno, dove viveva la moglie di Mario, la professoressa Caterina Ricupero con la figlia Maria, raffinata studiosa del teatro e della classicità dell’antenato, e il figlio Felice con il volto schiacciato e gli occhi chiari e inconfondibili degli Alvaro. Parlava dell’incontro con Pirandello e con altri famosi amici del fratello, ricordava come Corrado gli avesse fatto conoscere il teatro, e raccontava del padre maestro e scrittore, che aveva tradotto in dialetto alcuni scritti giovanili di Alvaro, ricordava uno zio poeta e la S. Luca della sua infanzia e poi chiedeva notizie di amici comuni, della Calabria e dell’Università. Tra i tanti incontri, ricordo quello a Caraffa durante una processione estiva. Ero in compagnia di Enzo Stranieri. Faceva caldo, c’era afa, e con fatica l’anziano parroco stava dietro ai fedeli che quasi correvano, mentre lui si muoveva spedito, come quel calabrese che ha tanta cammino da fare, come il fratello ricordato da Pietro Pancrazi, citato da Geno Pampaloni, alla fine della celebre conferenze tenuta a Firenze all’inizio degli anni Trenta del Novecento. Poi, don Massimo, mi fece visitare la bella chiesa della Madonna del Rosario, la chiesa matrice, mi mostro le minute e preziose opere d’arte e, con discrezione, mi pregò se potevo sollecitare qualcuno della Soprintendenza per i beni artistici per ottenere i fondi del recupero dell’antica chiesa della Madonna della Pietà. Sollecitai qualcuno, ma credo senza esito alcuno, come accade sempre dalle nostre parti, dove si rinvia sempre a poi, a domani quando si tratta di portare avanti opere buone e comunitarie: don Massimo fece interventi di recupero a sue spese, come con gratitudine ricordano i fedeli di Caraffa.
L’ultimo incontro con risale nello scorso novembre. Sono andato nella  casa dei nipoti a Siderno (assieme a Gilberto Floriani, a Gianni Carteri, ad Alfonsina Bellio, a Foca Accetta) per il piacere e il dovere dirgli che, in maniera fortunata (grazie a un lascito fatto dagli eredi di Lico al Sistema Bibliotecario Vibonese), avevamo a disposizione degli studiosi l’archivio di Domenico Lico, originario di San Costantino Calabro, compagno di studi e amico inseparabile di Alvaro a Catanzaro, che ha custodito testi giovanili manoscritti di Alvaro e anche una sua corrispondenza con il giovane scrittore. Era felice, don Massimo, e cominciò a parlare di Lico e di Bosco, della conferenza tenuta dal fratello su D’Annunzio. Citava a memoria “L’età breve” e  ripeteva, come in un ritornello, di continuare ad occuparmi di Alvaro. Parlò con grande rispetto e apprezzamento di Francesco Perri (con cui c’era un legame di parentela) e di Mario La Cava. Non sentiva bene, ma era sempre sveglio e brillante, sagace, lucido, ricordava tutto e di tutto parlava. Mangiò con gusto, invitava gli ospiti a mangiare e a prendere ancora delle ottime pietanze preparate dalla nipote: mi ricordava la sacralità alvariana del “mangiare assieme”, quella convivialità che lo scrittore amava molto e trasformava in poesia. Qualche familiare ricordò che una volta anche don Massimo aveva scritto dei versi su S. Luca da mettere su una cartolina stampata dal Comune. Con ironia disse: «Guardarono me, nella riunione, e io dissi, ma che volete?, avete Alvaro, prendete i suoi scritti, lui era un poeta, se mettete i miei versi ci cacciano a tutti e due, anche a lui da poeta». E rideva, con autoironia. Poi ricordò il libro per le elementari del padre e alcuni versi dello “zio poeta” e si rassegnò, quasi scusandoci, a recitare i suoi versi dedicati a S. Luca: «Sotto Aspromonte/ tra le valli apriche/ di fronte al mare/ tra giardini e fiori/ come in un anfiteatro in case antiche/ veglia S. Luca, terra di pastori». E parlava di passaggi di Pirro e del periodo magnogreco con l’orgoglio di chi si sentiva discendente di una storia lunga e gloriosa.
Ci salutammo, dandoci appuntamento a breve per integrare un filmato, ormai finito, su di lui, avviato da anni per conto del mio Dipartimento. Si “fidava” di me e suggeriva quando e quello che dovevo “tagliare”. Era discreto, non rivelava segreti familiari, non dava giudizi negativi: bastava una risata o un silenzio per farti capire. “Poeta dei segreti” ha definito Geno Pampaloni Corrado Alvaro. A modo suo, anche don Massimo, è stato un “poeta di segreti”.
Tre giorni fa, mi ha telefonato Maria Saccà. Don Massimo era caduto e si trovava in ospedale a Locri, in attesa di essere operato al femore. Aveva un pensiero fisso: la sorella Laura di cui non ricordavo l’esistenza (o per meglio dire non sapevo fosse ancora in vita) avrebbe compiuto, il prossimo trenta giugno, cento anni, a Roma, dove vive da tantissimi anni. Voleva che questa sorella cui voleva molto bene e che Corrado aveva amato tanto fosse ricordata da qualcuno. Affidava a me l’incarico di un ricordo che lui non poteva fare e mi segnalava gli scritti dove Alvaro  parlava con tanta delicatezza e con amore di Laura. E, tramite, la nipote Maria mi segnalava,  brani de “Il nostro tempo e la speranza” e di “Quasi una vita” e “Le lettere a casa” nel volume “Il viaggio” e il racconto “Casa nostra” nella raccolta di racconti giovanili “La siepe e l’orto”. In quel racconto il protagonista Guido (un suo alter ego) torna in paese, a casa, dopo tanti anni, ormai famoso, anche se non ricco, e vede per la prima volta il fratellino Massimo: «…c’era un bimbo in terra, coi capelli biondi, col visuccio sollevato e le manine in alto per farsi prendere in braccio. Era così bianco quel bimbo, nella carne tenera, che si capiva nato quando i capelli del padre cominciavano a impallidire. Il fratello lo prese in braccio e si guardò bambino con un po’ di gioia e con un po’ di paura che gli rassomigliasse in tutto. Allora il padre fece la presentazione». Poi Guido conosce la piccola Laura, scalza, e la posa sul ginocchio, facendola danzare. «Massimo guardava contrariato. Fu fatto salire sull’altro ginocchio, di fronte alla sorella, e i due bimbi si misero a ridere di trovarsi così uno di fronte all’altro; il padre e la madre, vicini come in una fotografia di famiglia, guardavano…». Guido-Corrado regala a Laura una bambola grande, le scarpette e di caprettina; e a massimo un ciuco con le ruote e le scarpe, e la cioccolata.
Molti anni dopo, il 15 gennaio 1941, in “Quasi una vita”, Alvaro scrive: «Per la morte di mio padre, tregua alle invidie del paese. Le visite di tutti; il prete ubriaco faceva un sermone sulla morte […] La notte dormimmo tutti con la madre e la sorella nella stessa stanza dove figli siamo nati. I vetri erano rotti, i muri lesionati ancora dal terremoto, le finestre cadenti. Entrava il freddo nevoso dell’Aspromonte, e io lo riconoscevo nel sonno come un paesaggio mio. Lasciando il paese, all’alba, le case addormentate, una striscia di nebbia sopra, come un respiro. La luna pareva un pane. Nostalgia di questo momento in cui si dimentica quello che si è sofferto. Mio fratello prete vaneggiava di una tomba bellissima e sulla spesa, domandandomi se nella cappella avessi preferito la Madonna del Dito o quella della Lacrima. Andai a indicare il luogo della tomba di mio padre, e volevo che fosse collocata là presso il muricciolo di cinta, a monte, dove spesso ci fermavamo nelle nostre gite, ed egli sostava volentieri dicendo che lì si respirava».
Sono stato, qualche volta, in compagnia di Don Massimo davanti alla tomba del padre. Corrado Alvaro ha scritto per il padre (cito a memoria) la seguente epigrafe:

«Per sollevarsi dal nulla, per elevare i suoi, adoperò spirito di sacrifico, alto impegno e tutte le virtù magnanime che fanno la grandezza umana».  Don Massimo andava fiero di questa epigrafe, si riconosceva nelle parole del fratello scrittore, e fiero andava delle parole scritte per la madre da Domenico Zappone (che ha scritto delle bellissime pagine sulla madre do Alvaro, che non sa della morte del figlio).
Immaginava, don Massimo, che quel posto sarebbe piaciuto anche a Corrado per respirare e penso che anche lui abbia pensato, per la sua sepoltura, a quel posto, mentre restituiva, alvarianamente, memorie di una famiglia che amava in maniera sana e generosa. Non amava gli sfarzi don Massimo, vestiva sempre, con sobrietà, garbato. Aveva il gusto del narratore ed era anche un “uomo di teatro”, un figlio di quella Calabria che passa spesso dalla satira al dramma, dalla risata al pianto, dalla seriosità estrema allo scherzo più irriverente. I suoi “vaneggiamenti” per la famiglia nascevano, forse, per un senso di “rivalsa” e di “riscatto” dinnanzi a tante incomprensioni e invidie paesane e anche per quel sentimento alvariano della Giustizia che esigeva una sorta di ordine e di armonia nel mondo.  Anche in Don Massimo, come in Alvaro, c’era il desiderio di ricordare come il sacrificio dei padri serviva ad elevare e a riscattare la famiglia.  Credo che anche per l’amore di Alvaro, del padre, della famiglia, ma anche per amore del paese natio, don Massimo partecipasse, compatibilmente con le sue condizioni di salute, alle numerose e qualificate iniziative(Convegni, Premio Alvaro, giornate di studio a S. Luca e in varie parti d’Italia e di Europa)  che negli ultimi anni tanti suoi paesani e la “Fondazione Corrado Alvaro” hanno portato  avanti per fare riscoprire a un pubblico locale ed europeo una delle più importanti figure letterarie del Novecento europeo, un figlio illustre di un paese amato e narrato. Per questo compito di custode della memoria familiare, don Massimo apprezzava e seguiva con attenzione le iniziative su Alvaro portate avanti dai docenti della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Unical, in particolare dal Dipartimento di Filologia.

Con il culto per il fratello e la famiglia, don Massimo ha restituito, con generosità, ad Alvaro i doni, materiali e immateriali, ricevuti da bambino, da adolescente e da adulto. Egli era consapevole e fiero di essere il depositario di una grande vicenda culturale e intellettuale, che affondava le sue radici un microcosmo paesano e familiare e che si era dilatata, diventando letteratura e vita, nel mondo intero. La devozione per Alvaro non lo faceva vivere di luce riflessa: era lui, don Massimo, con le sue storie e i suoi ricordi, la sua vita di parroco, i suoi parrocchiani e i gli amati familiari, la sua personalità, il suo umorismo, il suo disincanto. In fondo restava sempre un bambino , con quella sua capacità di stupirsi e di giocare, di raccontare e di raccontarsi favole, le favole della vita.

Per una di quelle strane coincidenze della nostra vita sconosciuta, ieri notte, rileggevo gli scritti di Alvaro che mi ero portato sul letto per onorare la richiesta di don Massimo. Mi sono svegliato, attorno alle sette, l’orologio del cellulare era stranamente fermo alle ore in cui Don Massimo se ne andava. Forse un suo ultimo saluto e un’ ulteriore sollecitazione a scrivere di quel mondo dei padri e delle madri, delle sorelle e dei fratelli, degli antenati e degli eredi, che lui mi ha fatto amare ancora di più con i suoi racconti. Nella poesia di Alvaro “Lettere alla casa” che don Massimo mi aveva indicato, tramite la nipote Maria, per lo scritto sulla sorella Laura, i versi finali appaiono quasi un profetico epitaffio dell’allora giovane scrittore per don Massimo e per gli altri suoi fratelli:
Fratelli quando nasceste
La mia forza fanciulla
Non anche bastava a tenervi.
Noi dividemmo per anni
Il nostro gran letto, perché
Avevamo paura. Ora no;
ora no: per noi cucion le donne
nostre ed il piccolo è in una cuna.
E quando piange fa pena
Vederlo. Lo toglie la mamma
In braccio e con tanto amore,
e tanto se ne addolora
che riesce a farlo sorridere.
Perché dopo non lo potrà.
Come la causa non sa
Del nostro piangere d’ora.


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