Non avrei voluto unirmi al fiume di coloro che scrivono il giorno dopo una strage.
E' ormai un fenomeno di costume tale da aver invaso Facebook.
Basta che muoia qualcuno che sia quantomeno noto, che succeda qualcosa in qualche angolo del mondo "amico" (guai a commentare le tragedie quotidiane dell'altro mondo, quello contro il quale l'Occidente ha impattato) ed ecco epitaffi d'autore, lacrime collettive, frasi sdolcinate, ricordi, pensieri e parole (senza essere Battisti).
Tuttavia i fatti, la tragedia, di Boston mi hanno colpito in particolar modo.
La maratona è il manifesto della fine di un conflitto. E' stata pensata, come moderna competizione, in onore del percorso fatto dall'oplita Fidippide per annunciare la vittoria degli ateniesi sui persiani.
La maratona, nell'immaginario collettivo, è l'annuncio della fine delle ostilità.
E' inoltre la gara regina delle Olimpiadi, quella che conclude le rassegne a cinque cerchi.
Persino Hitler smise di giocare con il mondo a forma di pallone per pochi giorni, quando la Berlino nazista nel 1936 vide Owens sfrecciare. Jesse, il nero dell'Alabama. Quello che stracciò l'atleta del Reich, Luz Long, davanti al Führer.
Insomma le Olimpiadi e la maratona non hanno nulla a che vedere con la violenza.
Ieri, invece, un vile attacco terroristico di matrice interna, islamica, coreana (chissà) ha deciso di violentare uno dei simboli della pace.
E' come sparare a una colomba bianca.
Crudele.
Oggi si sente solo l'eco delle bombe, si vede il sangue.
Sono morti in tre, più di cento i mutilati.
E' aberrante.
L'uomo è l'animale più cattivo del pianeta, questo si sapeva.
E' l'unico che desideri ferocemente la morte di un proprio simile.
Non date degli animali a questi terroristi, sarebbe un complimento immeritato.
Hanno colpito la capitale raffinata della cultura americana, la città "buona" degli States.
Perché? Ce lo dirà la storia.
Adesso è giusto lasciare spazio al silenzio.
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