
Articolo di Saverio Fossati e Stefano Latini, pubblicato su "Il Sole 24 Ore"
Il concetto di "federalismo fiscale" è usato spesso nel dibattito politico come una sorta di ricetta magica, di elisir che garantirebbe minori tasse, e a seguire, la riduzione delle spesa pubblica, un taglio agli sprechi, la semplificazione degli adempimenti e uno stop all'espandersi della macchina burocratica. Un dogma che suona, in realtà, come un eccesso d'ottimismo. Per rendersene conto è sufficiente recarsi nel Tempio del Federalismo fiscale, municipale e persino distrettuale applicato non da decenni, bensì da secoli, negli Stati Uniti.
Al fisco locale Usa il 12,5% del reddito Iniziamo dall'equazione Federalismo fiscale=meno tasse, un'equivalenza talmente fuori dalla realtà statunitense che accenderebbe una discussione anche all'angolo d'una edicola o in attesa d'un qualunque bus. Per capire dove la supposta equazione inverte il risultato è sufficiente considerare due dati, le entrate fiscali riscosse a Washington, quindi su base federale, e quelle che affluiscono ogni anno sui bilanci dei singoli Stati dell'Unione e delle diverse realtà locali. Nel dettaglio, ai 2.200miliardi di dollari incassati dal fisco federale, anno d'imposta 2009-2010, s'accodano anche i 1.256 miliardi che oltre 80mila giurisdizioni - stati, contee, città, distretti speciali e distretti scolastici - tutte dotate d'una autorità impositiva anche se variabile sia in riferimento alla base imponibile che al territorio, provvedono a domandare e a incassare puntualmente, e spesso con rigore, dai rispettivi residenti, aziende incluse.
Il risultato è un vero e proprio Moloch fiscale che, su piani distinti, sottrae in media 4.364 dollari l'anno ai contribuenti, proprietari, i cui redditi non superano i 50mila dollari l'anno. Per intenderci, è come se in Italia un lavoratore con uno stipendio medio, e una casa di proprietà, dovesse lasciare ogni anno una intera mensilità, e quasi la metà di quella successiva, al fisco locale nelle sue differenti esternazioni, Comune, Provincia e Regione. Insomma, il 12,5per cento del proprio reddito destinato al territorio.
Ma ciò che rende ancor più ingegnoso il federalismo fiscale statunitense riguarda le modalità del prelievo cui sono sottoposti 140milioni di contribuenti. Innanzitutto, l'imposta sui redditi delle persone fisiche si applica con una aliquota del 4% sui redditi medi a New York che raddoppia una volta superati i 100mila dollari, mentre a Chicago scatta la flat tax. In altri Stati, invece, è in vigore un classico sistema progressivo. E a rendere ancor più complesso il panorama impositivo ogni singolo Stato, o città, e persino Contea, può introdurre soglie d'esenzione, crediti d'imposta e sconti particolari. Sul versante delle imposte indirette il clima fiscale non cambia, anzi, s'infittisce.
Comprare un iPhone a New York o Boston? Decidere l'acquisto d'un iPhone a New York, per esempio, implica l'aggiunta, sul prezzo base, d'una imposta sulle vendite pari quasi al 9%, mentre lo stesso modello acquistato a Boston sconta una aliquota generale che s'arresta al 5 per cento. L'effetto sul prezzo di vendita finale è piuttosto ovvio, come quello che esercita sulle scelte di consumatori e operatori del settore. E non è finita. Sui profitti le società hanno un ricco ventaglio di opzione tra cui scegliere. In California l'aliquota è prossima oramai al 9%, mentre in Kansas è ferma al 4 per cento. A New York il tasso è del 7%, ma per i piccoli imprenditori è previsto un percorso agevolato. E il Delaware? L'aliquota è pari all'8,7%, ma è sufficiente guardare all'estero per poi farvi ritorno per assicurarsi ampie agevolazioni e, soprattutto, una significativa velatura dei rispettivi profili finanziari.
La casa in nome del fisco Comunque, l'imposta che riassume meglio, in modo accademico, l'eterogeneità quasi incontrollata della fiscalità statunitense è quella che si applica sulla proprietà. Innanzitutto, competenza in materia è soprattutto appannaggio delle autorità locali, città e contee, e in misura quasi micro degli Stati. In totale, ogni anno il gettito derivante dalla tassazione della proprietà è pari a 468miliardi di dollari. Sempre restando sul bilancio del contribuente medio, la casa implica un esborso in media pari a circa 2000mila dollari, con variazioni considerevoli a seconda dell'area in cui si risiede. Per i contribuenti facoltosi, invece, cioè con redditi che oltrepassano i 150mila dollari, la proprietà richiede il versamento di almeno 12mila dollari l'anno.
Comunque, mentre a Houston su di un immobile di 200mila dollari di valore l'imposta da pagare è di circa 5mila dollari, a New York, sempre in media, può arrestarsi a 700dollari. La differenza deriva da due fattori fondamentali. Il primo riguarda direttamente l'aliquota, pari al 2,5% a Houston e al 16% a New York. In secondo luogo sono la modalità di calcolo del valore tassabile dell'immobile, abbinata con significative soglie d'esenzione connesse al reddito, che trasformano a conti fatti le due aliquote nei seguenti tassi reali dell'imposta, 2,5% a Houston, che quindi resta invariato, e 0,7% a New York, dove sono decine di migliaia le unità abitative dove le posizioni reddituali escludono, per l'esiguità, ogni forma di tassazione. E per concludere sulla proprietà, l'argomento è talmente spinoso che in ben 21 Stati sono ad oggi in vigore delle norme che impongono un tetto, in genere al 2%, che impedisce aumenti maggiori, o peggio, indiscriminati, sulle aliquote da applicare.
Le tasse aumentano con il sistema federale Usa Il risultato di questo breve viaggio nel Tempio del Federalismo fiscale mondiale, cioè gli Stati Uniti, conduce a una conclusione piuttosto lontana dall'assunto iniziale. Le tasse aumentano, e in più l'intero sistema si aggroviglia con modalità d'applicazione talmente divergenti rispetto al regime federale tanto da imporre speso al singolo contribuente, e all'impresa, il confronto con procedure tendenti alla progressività, o al suo opposto, con aliquote divergenti, con duplicazioni di tasse e imposte relative alla medesima base imponibile ma calcolate secondo parametri divergenti. Il risultato ha condotto a circa 200miliardi di dollari, le spese annuali aggiuntive che pesano sui contribuenti, persone fisiche e società, chiamate a una generale mobilitazione soltanto per restare al passo con il Fisco, e al parallelo boom dei consulenti fiscal-finanziari che come una vera e propria task force in occasione di singole scadenze si pongono al servizio di milioni di cittadini senza distinzione tra ordinari dipendenti pubblici o professionisti e imprese. L'indice di complessità e di farraginosità è talmente elevato da rendere irrilevante ogni distinzione tra la singola tipologia di contribuenti.
E anche la spesa pubblica destinata agli enti locali Sul versante della spesa, e della macchina burocratica nel suo complesso, la lectio americana non produce risultati migliori. Nonostante le ricche entrate fiscali assicurate dagli Stati e dalle miglia di giurisdizioni locali, infatti, Washington provvede a trasferire ogni anno un pacchetto significativo di aiuti pari a circa 740miliardi di dollari l'anno. Fondi che si disperdono nei diversi rami del welfare locale, dalla sanità al lavoro, dalle infrastrutture alla scuola. Tuttavia, nonostante l'entità dei fondi il federalismo fiscale ha visto crescere l'indebitamento oltre ogni limite di sicurezza, oggi pari a più di 2.500miliardi di dollari. Un macigno che, in via indiretta, potrebbe presto interessare anche Washington, chiamata a intervenire per ripianare il rosso dei bilanci locali e statali. E per finire, la macchina burocratica persino negli Usa, e proprio grazie al concorso delle realtà locali, oggi impone l'assunzione l'impiego di circa 15milioni di persone lungo l'intera filiera che segue il dipanarsi delle molteplici reti che conducono da Washington fin dentro il più lontano dei distretti scolastici. E tutto questo spiega anche il perché sia sufficiente un tea party, purchè riservato alle tasse, per mettere in Crisi l'inquilino di turno della Casa Bianca.
Il Delaware, paradiso fiscale nel cuore del federalismo Usa Il variopinto Puzzle fiscale che contraddistingue il federalismo statunitense è rappresentato, in modo piuttosto ambiguo, da alcuni Stati che, proprio per la fama del sistema di tassazione applicato, hanno guadagnato, per anni, le prime pagine di riviste e quotidiani, non soltanto negli Usa. In testa, nella hit dei più richiesti, e consumati, compare il Delaware. Un'entità, come spesso viene definita dagli stessi analisti statunitensi, che esibisce in poche righe e in tre dispositivi normativi la realtà contabile surreale d'una giurisdizione altrettanto irreale. In pratica, più della metà delle grandi Holding Usa che operano ben oltre i confini domestici, risultano avere il loro quartier generale proprio nel Delaware. Livelli d'impiego, capitale umano con un profilo elevato, abbondanza di capitali e, per ultimo, paesaggi appetibili per investimenti altamente remunerativi non sono la ragione di questa concentrazione.
Insomma, per spiegare perché il 58% delle aziende presenti nel listino di Fortune 500 offrano la loro vetrina dal Delaware è sufficiente passare in rassegna alcune norme base del codice tributario di questo Stato. Innanzitutto, le società sussidiarie delle Holding, senza nessun limite nella loro dimensione in termini di ricavi o distribuzione, sono esenti dall'imposta sui profitti. Risultato, mentre il quartier generale, di rappresentanza, delle Holding è spostato nel Delaware, decine, centinaia, forse miglia di imprese sussidiarie, effettivamente operative, sono localizzate altrove, fuori dei confini. In questo modo, la tendenza verso il basso del prelievo sui grandi profitti realizzati ogni anno è piuttosto pronunciata, tanto da non aver rivali. In più, questo Stato seduce anche le banche e gli istituti di credito, in quanto non pone tra i paletti della disciplina fiscale che a questi si applica nessun limite, o norma, che richiami la condizione dei tassi di usura. Insomma, per queste entità vige una sorta di mano libera, naturalmente entro determinate condizioni. E comunque, se questi dispositivi normativi richiamano un numero davvero sorprendente di aziende, sul versante opposto si registra come gran parte delle entrate fiscali provengono proprio dalle imprese, tanto da consentire allo Stato di non applicare nessuna forma indiretta di tassazione su consumi e vendite. In pratica, no sales tax.
Il caso della Florida Differente il caso della Florida. La specificità di questo Stato, infatti, è simboleggiata dalla proibizione, per legge, anzi, conseguente al dettato costituzionale, dell'imposta sui redditi delle persone fisiche. In questo caso, quindi, sono la tassazione indiretta, che guarda ai consumi, e la proprietà che alimentano, anno per anno, il bottino controfirmato dal Dipartimento delle entrate dello Stato che, nel complesso, non è affatto soft in materia di prelievo.
La solitudine fiscale del Nevada In Nevada, invece, si raggiunge il livello massimo di contraddizione in chiave fiscal-federale. In questo Stato, infatti, non si applicano né l'imposta sui redditi delle persone fisiche né il prelievo sui profitti. Il risultato è che la quota maggiore, se non complessiva delle entrate fiscali deriva, in via quasi statutaria, dalla riscossione di imposte e tase applicate su consumi, servizi, proprietà residenziali e fondi agricoli. Insomma, in un modo o nell'altro l'erario deve segnare la presenza d'un gettito.
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