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Addio Vezio, barista comunista




(Il ricordo del Circolo PD Roma Centro Storico)

Il suo pugno chiuso non si alzerà più.

Vezio Bagazzini è morto, consumato dalla malattia e anche da

 certe ingiustizie che l’ultima parte della sua vita non gli aveva risparmiato.

Aveva 69 anni e alle spalle una lunga vita da militante e barista comunista.

Già, barista: perché Vezio - da dietro il bancone del suo bar

 in via dei Delfini, piantato nel cuore del vecchio ghetto giudìo di Roma - era
 il barista di Botteghe Oscure; l’unico che poteva entrare e uscire dal
 Bottegone per portare il caffè ad Enrico Berlinguer.
 Il Riformista, Vezio lo aveva incontrato l’ultima volta poco tempo fa.
 Era stanco, la malattia aveva lasciato il segno nel fisico ma lo spirito era
 quello di sempre.

Gli piaceva ancora parlare di politica e, anzi, sembrava che per lui 

fosse ancora necessario parlarne, ché la politica era parte essenziale
 della sua esistenza come, in fondo, dovrebbe essere, ed è sempre stato,
 per ogni buon compagno.

Parlandone, sembrava anche riscattare quel velo che sembrava amarezza.

 E che, anzi, era certamente amarezza. E, allora, ascoltarlo era un piacere.

Nei suoi ricordi mescolava la sua vita con la storia e soprattutto quella 

del Partito comunista italiano e di Botteghe Oscure.

«Quando i comunisti erano comunisti e la politica una cosa seria - scrivemmo

 in quella occasione su queste pagine - a Roma dove stava il bar di Vezio
 lo sapevano tutti». Tra le tante storie che ci raccontò, ce ne era una che
 riguardava due telefoni e che riassumeva l’essere il suo bar, come disse
 Massimo D’Alema, una «parte della struttura del comunismo italiano.
 Una parte organica». I due telefoni erano quelli che funzionavano nel
 suo bar, tappezzato di fotografie e manifesti della storia comunista. 
Uno dei due telefoni era all’entrata del bar, ed era «un telefono normale».

Però, accanto c’era una radio sempre accesa: «Per coprire i discorsi», 

aggiunse Vezio, evocando, in un niente, il freddo di anni di guerre
 combattute a bassa intensità. L’altro, invece, poteva soltanto ricevere. 
E il numero lo avevano soltanto «i compagni della scorta di Berlinguer».

Fu su quel telefono che lo chiamarono «i compagni» quando Berlinguer 

si sentì male a Padova.

Gli dissero di correre al Bottegone, di avvertire al secondo piano che il 

segretario stava malissimo, che forse era già morto. Con lui - disse Vezio - 
«finì tutto».

Tempo dopo, certe vicissitudini familiari lo costrinsero a traslocare, a lasciare

 il Ghetto e riaprire la serranda del bar nei pressi di piazza Navona. 
Sembrava una rinascita, con tanto di sigillo del Comune allora guidato
 da Walter Veltroni. E, invece, quella strada - un frammento di bassifondi
 romani che sembrava essere stato strappato al passato, ma certe storie
 sono dure a morire - si rivelò forzatamente l’ultima tappa di una lunga storia.

Piuttosto che darla vinta agli uomini delle slot machines, preferì abbassare

 per sempre la serranda, lui, il comunista che portava il caffè al compagno
 segretario Enrico Berlinguer. Roba da eroi. Ieri in tanti lo hanno ricordato.
 Massimo D’Alema, ad esempio, e Walter Veltroni. 
E anche Emanuele Macaluso.

«Sono molto addolorato per la scomparsa di Vezio - ha detto - che è 

stata un’istituzione, una dependance del Bottegone». 
E, in effetti, il baretto di
 via dei Delfini era noto anche come il Retrobottega del Bottegone,
vista la vicinanza topografica e la consonanza politica.
 «Nel suo bar - ha ricordato ancora Macaluso - dominava il rosso 
del Pci ed il giallorosso della Roma.

C’erano manifesti e foto dei dirigenti, Togliatti, Longo, Berlinguer, 

accanto a foto di Falcao e della squadra del suo cuore». Ed erano 
tantissimi anche alla cena che amici e compagni avevano organizzato
 di recente in suo onore. Lui, che nel tempo aveva mantenuto un buon
 rapporto con tutti, al di là delle mille diaspore che prosciugarono il Pci
 fino ad oggi, ne fu felice.

Allora, si alzò, e salutò tutti con una frase di Giorgio Amendola

 che citava spesso: «A nuove lotte». E, poi, alzò il pugno chiuso.

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