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Se la mafia diventa un’invenzione


Articolo del Prof. Vito Teti, pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” del 18 aprile scorso.


Che tristezza. Non siamo i «campioni del mondo». In fatto di criminalità, in ambito di delinquenza e di potere criminale-economico siamo soltanto sesti, come ci ricorda il nostro Premier.

Verremmo (non ho controllato l’ordine) dopo Cina, Russia, Giappone, Colombia e non ricordo bene la quinta potenza.
Che il profitto delle nostre organizzazioni criminali sia di cento miliardi di euro all’anno, inferiore a quelle di grandi, vasti, popolosi paesi del mondo, ma con grave deficit di democrazia, appare quasi come una sorta di gap da colmare. Anche perché al “danno” si aggiunge la “beffa”.

Siamo soltanto sesti e di noi, poi, si parla più degli altri. Come se della Juve, sesta o settima (non ricordo) si parlasse più dell’Inter e del Milan.

Sostiene il Premier che se l’Italia offre al mondo l’immagine di terra delle mafie è soltanto perché ci sono scrittori, saggisti, cineasti, artisti, giornalisti che osano raccontare la realtà, che non sanno rassegnarsi alla finzione, alla confusione tra realtà e fiction, che continuano a parlare di intere regioni oppresse dalla criminalità, di omicidi, rapine, holding criminali, controllo violento del territorio, delle economie, delle coscienze.

Basterebbe non parlarne e mafia ’ndrangheta e camorra sarebbero, come ancora propone qualcuno, soltanto le colorate e folkloristiche invenzioni dei tre “cavalieri spagnoli”. Quei cavalieri, quelli del passato, non ce la contavano mai giusta e mitizzavano ed edulcoravano i loro comportamenti.

Le mafie sarebbero soltanto le invenzioni di chi non ama il proprio paese, di chi è disfattista. Come per la crisi: basta dire che non c’è e subito tutti stanno bene.

Come per l’emergenza democratica. Basta dire che ci sono i giudici rossi, comunisti, la Corte Costituzionale che impedisce di “governare” a un governo con una maggioranza assoluta. Saviano, con la consueta forza delle parole e con il coraggio di sempre, risponde con una bella lettera (pubblicata su “Repubblica” di ieri) al Premier.

Dichiara che non tacerà mai. Vorrei riprendere un punto toccato dallo scrittore, che da qualche tempo mi ronzava nella testa e, per pigrizia, per solitudine, non avevo osato trattare.

Sono Mondadori ed Einaudi – si domanda Saviano - le case editrici più adeguate alla sua “narrazione”?
La mia modesta opinione è che i gruppi editoriali, controllati direttamente e indirettamente dalla “famiglia” Berlusconi, dalle sue mille “sigle” e “ramificazioni” parallele, più o meno palesi, non siano i luoghi più appropriati, più adeguati, più legittimati a occuparsi della criminalità. Pubblicando libri che parlano dei profitti delle mafie creano ulteriori enormi capitali per le mille “imprese” del Premier. Altro che conflitto di interessi: siamo nella notte in cui tutte le vacche sono nere e anche le poche luci vengono risucchiate da un buio cupo.

E’ talmente notte fonda che anche le menti più lucide, più coraggiose, più democratiche inciampano in trappole perverse che li porta, alla fine, a incrementare i profitti del caimano e dei suoi sodali.

Di recente sono usciti con Mondadori ed Einaudi libri coraggiosi, documentati, civilmente impegnati, ben scritti di magistrati, giornalisti, scrittori che “denunciano” la “catastrofe” criminalità. Il tutto con un grande battage pubblicitario, con recensioni sui giornali di famiglia, con passaggi in tutte le reti televisive, private e pubbliche, con conseguenti vendite di migliaia e migliaia di copie. Certo, le grandi holding editoriali prosperano anche vendendo libri che denunciano le holding criminali.

Capisco le logiche perverse del nostro capitalismo, delle banche, delle grandi industrie che devono sempre e comunque fare soldi. Ma agli autori, ai registi, agli scrittori “serve”, davvero, pubblicare per quei gruppi editoriali, governati da chi poi li detesta, ne parla male, li indica come colpevoli? E le intense storie di emigrazione e di immigrazione, davvero possono essere “narrate”, divulgate, promosse, con convinzione e credibilità, fatte diventare “senso comune” e civico, attraverso quei canali mediatici controllati da chi farebbe buttare a mare gli immigrati, li “caccerebbe” se non fossero anche loro fonte di profitto e di guadagno?

Mi “diletto” anch’io con la scrittura, e mi pongo problemi sulla destinazione dei miei scritti: non nascondo l’importanza di avere come interlocutori editori noti e grandi. Il problema è che dovrebbero essere anche “credibili”, coerenti e conseguenti con i principi e i valori, anche lo stile, delle opere pubblicate. Conosco le sofferenze, le insonnie, i tormenti, le gioie di chi scrive e quanto sia importante, per un autore, essere letto, conosciuto, magari apprezzato per avventurarmi, a cuor leggero, in considerazioni che potrebbero sembrare moralistiche e di comodo.

So bene quanto sia fondamentale pubblicare bene le proprie opere, come sia vitale che idee e argomentazioni circolino, raggiungendo il maggior numero possibile di lettori. Capisco anche una certa “vanità” e anche la necessità di vivere, legittimamente, con il proprio lavoro, con i diritti, con la propria scrittura, cosa che solo i grandi editori possono garantire.

Ma se la diffusione dei libri di bravi e grandi autori è usata per affermare idee esattamente opposte a quelle in essi sostenute, se la distribuzione capillare di opere, di grande valore letterario, ma anche di denuncia civile ed etica alla fine ci restituisce questa Italia “incivile”, arruffona, “forcaiola”, antidemocratica, siamo, davvero, sicuri che quella divulgazione, quell’impegno, servano alla causa della libertà, della verità, della dignità, della democrazia?

Si rifletta prima che sia troppo tardi. Lo faccia questa sinistra sconfitta, stracciata, senza idee e senza progetti. Senza una “cultura” che non sia quella delle apparizioni mediatiche o complementare a quella delle case di distribuzioni editoriali e cinematografiche del loro “grande nemico”.

Facciano una proficua meditazione anche quegli autori che, a volte, sostengono che la letteratura e la scrittura non abbiano a che fare con questioni “pratiche” e contingenti e che sia irrilevante come e dove pubblicare o che sia sempre meglio farlo con i “grandi”. La facciano registi, artisti e uomini di spettacolo che pensano che sia bene e doveroso esprimersi comunque e con i soldi o i finanziamenti di chiunque, magari di quello di cui parlano male nel loro film o nel loro libro (con atteggiamento auto assolutorio e speculare a quello del Premier).

La facciano i grandi autori, quelli che creano opinione e vendono migliaia di copie, che hanno accesso alle grandi case editrici e ai giornali, ma che si dicono e si pensano, e lo sono, profondamente “liberi”, all’opposizione. La facciano tanti uomini politici del centro-sinistra, scrittori bravi o improvvisati, a pubblicare presso i gruppi editoriali del “nemico”, con la motivazione che non bisogna demonizzarlo, che è necessario essere “super partes”, che non è opportuno confondere politica e cultura, valori e modi di diffonderli.

Certo chi lavora con serietà con passione, con competenza, nelle case editrici, chi legge manoscritti, cerca belle opere, fa un lavoro di editing ha una sua nobiltà che non può essere confusa con la politica e l’economia della proprietà, ma è possibile, davvero, distinguere tra case editrici e logiche e principî (e interessi) dei proprietari?

Davvero si è “liberi” o “tranquilli” di pubblicare con editori che hanno come riferimento chi considera la libertà uno slogan politico-pubblicitario? Non è forse, qualche volta, meglio il silenzio, più produttivo aspettare, o scegliere altri luoghi e altri modi per affermare le proprie idee?

Gli “intellettuali” che non lesinano critiche al berlusconismo, alla dittatura mediatica, alla deriva antidemocratica, alla commistione criminalità-politica-affari, non sono, poi, alla fame: hanno, comunque, di che vivere, hanno molti spazi (magari più deboli) per farsi ascoltare. Facciano una scelta di coraggio, magari scomoda. Durante il fascismo sono stati pochi i docenti universitari che non hanno accettato l’iscrizione al partito fascista. Hanno pagato con la miseria, l’isolamento, la “morte” civile.

Hanno però resistito. Non si chiedono, oggi, gli stessi atti di eroismo, sacrifici enormi, rinunce. Non si pensa all’intellettuale organico, asservito, compiacente: ci si chiede, semplicemente, se sia possibile (come del resto hanno fatto già in tanti) cercare vie alternative, altri modi per dire la “verità”, per diffondere le loro storie, senza finire in pasto ai loro “referenti” che li cannibalizzano.

E’ difficile immaginare un “grande embargo” contro le superpotenze editoriali e mediatiche, che hanno come finalità principale il profitto e meno, o punto, la promozione della cultura e l’affermazione della democrazia e della tolleranza?

E sovversivo e irriverente cercare altri editori, di qualità, inventare altri gruppi editoriali, creare altri spazi di visibilità? Internet e la rete non suggeriscono vie d’uscita almeno provvisorie? Non si può creare un “danno” vero, enorme, pacifico, a chi pensa che la mafia esista perché qualcuno osa parlarne?

Nei confronti dell’Iran, di Cuba, della Cina, di paesi violenti e oppressivi, antidemocratici e che non rispettano i diritti fondamentali dell’individuo, tanti uomini politici, intellettuali, scrittori predicano l’embargo, sanzioni economiche.

Coloro che pubblicano con case editrici e fanno film o i programmi con case di produzione, controllate da chi poi se la prende anche con la fiction da lui stesso inventata, promossa, provino anche un embargo culturale, ritorsioni civili, provvedimenti adeguati (magari a termine).

Grandi scrittori stranieri (Rushdie e Grossman), intervenuti per solidarizzare con Saviano, trovino (fino a quando non si ristabiliscono le regole del libero mercato) altri “editori” per tradurre e divulgare in Italia le loro opere, che comunque troverebbero un grande pubblico. Sarebbe un bel modo per sostenere la democrazia in Italia e per contrastare la dittatura mediatica.

L’unica “resistenza” che potrebbe fare riflettere e colpire anche i grandi gruppi politico-editoriali è quella della perdita vertiginosa dei profitti. Ci si muova di conseguenza. Non ci si lamenti poi della “società incivile”, dei cittadini assuefatti al berlusconismo, se quanti hanno gli strumenti, l’autorevolezza, le capacità creative per “svegliare” le coscienze non fanno scelte coerenti, non si “liberano” dall’abbraccio mortale dei grandi venditori di tutto e del “nulla”.

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