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Il Mezzogiorno arbitro di se stesso


(Articolo di Pietro Reichlin su "Il Sole 24 Ore")

Il problema dello sviluppo del nostro Mezzogiorno è certamente irrisolto. Il divario in termini di Pil pro capite tra Nord e Sud è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi trent'anni, un gap di circa 30 punti percentuali, mentre il divario di produttività rimane intorno ai 15 punti. La distanza tra le due aree del paese in termini di qualità delle istituzioni, attrattività degli investimenti e capacità di penetrazione delle nostre industrie nei mercati internazionali è ancora più accentuata. Per comprendere la gravità del problema basta osservare che, negli ultimi vent'anni, le regioni meno sviluppate d'Europa sono state in grado di recuperare ampiamente il proprio ritardo. Dunque, la convergenza tra regioni ricche e povere non è impossibile, ma è anzi un evento naturale in assenza di impedimenti di carattere istituzionale.
Recentemente il ministro Tremonti ci ha ricordato che il ritardo del Mezzogiorno costituisce il principale difetto della nostra economia. Per avvalorare questa tesi, ha anche osservato che il Pil pro capite delle regioni del Nord d'Italia è tra i più alti del mondo. Senza Mezzogiorno, dunque, saremmo ricchi come la Svezia o la Germania. Tuttavia, non si deve dimenticare che l'Italia soffre di un difetto di crescita, che non riguarda solo il Mezzogiorno, ma anche il Centro Nord. I dati Istat e Bankitalia ci dicono che, da metà anni 90, la crescita del prodotto pro capite dell'Italia è stato inferiore di quasi 10 punti percentuali rispetto a quello dell'Eurozona. Se disaggreghiamo per aree geografiche, vediamo che il tasso di crescita del Pil pro capite nel Centro Nord, tra il 1996 e il 2006, raggiunge lo 0,8% contro l'1,3% del Mezzogiorno. La Lombardia è cresciuta circa la metà della Puglia o della Campania. In conclusione, i cittadini del Centro Nord sono certamente ricchi in media, ma sempre meno ricchi in rapporto alle altre regioni dell'Eurozona.
Negli ultimi 5-6 anni il Mezzogiorno ha subìto un rallentamento della crescita rispetto al Centro Nord, ma ciò appare un fenomeno legato alla recessione e, in particolare, al fatto che la sua specializzazione produttiva lo espone maggiormente alla concorrenza con i paesi emergenti. In realtà, la spinta fondamentale alla ricchezza del nostro paese dovrebbe venire soprattutto dal Mezzogiorno. Infatti, tassi di crescita particolarmente elevati sono più probabili nelle regioni meno sviluppate. Poiché il Mezzogiorno costituisce l'area economicamente svantaggiata più grande d'Europa, il potenziale di crescita dell'Italia è ancora alto.
Il vero problema per i nostri governi è dunque quello di applicare politiche per la crescita per il Mezzogiorno, anche nell'interesse del Nord Italia. Queste politiche sono già note, implicano un miglioramento della qualità dell'istruzione, una maggiore decentralizzazione della contrattazione a livello di aree e di impresa, una riduzione del fisco, una maggiore efficacia della giustizia e dei controlli di legalità. Tra gli indicatori della distanza tra il Centro Nord e il Sud, quelli che destano maggiore apprensione non riguardano il Pil pro capite, ma la percentuale di giovani che abbandonano gli studi (16,8 contro 25,5%), gli studenti con scarse competenze in lettura e matematica (17 contro 41,2%), l'attrattività degli investimenti dall'estero, la durata delle procedure giudiziarie e i livelli di corruzione.
Questi stessi dati suggeriscono che la ripresa del Mezzogiorno non dipende dall'entità dei trasferimenti pubblici ma dal grado di efficienza delle istituzioni. L'economia del Mezzogiorno ha bisogno di far crescere le imprese e la concorrenza nei mercati, liberandosi dal peso del settore pubblico, che al Sud raggiunge il 22,2% del prodotto, contro il 12% circa del Centro Nord.
L'economia del Mezzogiorno può quindi essere vista come un peso o come un'opportunità. Sta ai governi e alle forze sociali trovare la chiave per far prevalere il secondo aspetto sul primo.

3 marzo 2011

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