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A zia Paolina


E’ passata una settimana. E’ successo una settimana fa. Di giovedì, una delle prime mattinate calde dopo quest’inverno rigidissimo. Suona il telefono, è papà. “Antò, zia Paolina….” Quel secondo, è bastato solo quel secondo per farmi comprendere tutto. Non sono servite molte frasi di circostanza, non ricordo bene neanche se la parola “morte” sia stata mai pronunciata.
La tua eternità si era spezzata.
Sì, perché nella mia mente, e in quella di molti altri (come ho scoperto nel corso dei tuoi funerali), eri eterna.
Eternamente accompagnata da dolori, spesso insopportabili, ma eterna. Presente, soprattutto nella casa di Satriano che ti ospitava come un corpo fa con l’anima. Adesso la casa è un corpo vuoto, manca l’anima, mancano i rimproveri, le chiacchiere, le tue affermazioni forti e spesso scomode…. Non ti ho mai sentito dire una frase per far piacere agli altri, dicevi sempre ciò che pensavi… Il pregio della franchezza è qualcosa che si colloca fuori dal tempo in un mondo che utilizza l’ipocrisia come uno scudo. Dicevi la verità e se mentivi, lo facevi per affetto. Come quando da piccolo mi chiamavi “bello d’a zia” e non ero per niente bello, ero un bambino sovrappeso abbastanza taciturno, ma non ricordo una volta in cui tu, proprio quando mi sentivo più brutto, non mi abbia chiamato “bello d’a zia”. Per far capire che per te ero bello comunque, fuori dalle logiche dell’apparire  che dominano i nostri paesi. Mi hai cresciuto, come hai cresciuto tutti i tuoi nipoti. Ne andavi orgogliosa e quasi ti mettevi in competizione con le diverse mamme, dicendo: “A zia Paolina vi crisciu!”....La frase terminava poi con un malinconico “E mò vinda scordastivu…”. Avevi ragione, ho molto da rimproverarmi: avrei potuto telefonarti di più, venire a trovarti più spesso, essere presente almeno la metà di quanto tu lo sei stata nella prima parte della mia giovinezza. Il debito inestinguibile nei tuoi confronti non è stato compreso dall’arroganza dei miei anni, ma ho visto che è un debito collettivo. Mi ha commosso infatti la partecipazione delle persone nella chiesa di Satriano, anche di chi non aveva legami di parentela con te, ma è stato sempre trattato come un nipote.
Ricordo i pomeriggi primaverili in cui venivo a trovarti in paese, mi accoglievi con un sorriso che sembrava dipinto dal cuore, una gioia che è così difficile da trovare oggi, sincera. Dopo un rapido saluto, mi invitavi ad andare a prendere il succo di frutta che mi piaceva tanto, le patatine, insomma avevi già pensato a tutto. Preparavi l’accoglienza nei minimi dettagli.
Ecco un’altra lezione: l’odio per la superficialità.
Non eri superficiale quando parlavi, non lo eri quando ricamavi le meraviglie che ci hai lasciato, non lo eri in niente. E detestavi  i saluti di circostanza o quelle telefonate di maniera che la buonanima di nonno Antonio ti rivolgeva da Roma… “Cu du paroli s’a cacciau!” Adesso, forse, potrete bonariamente scontrarvi di nuovo, lassù, recitando a memoria  la parte che i vostri caratteri sulla terra vi avevano affidato. Ricordo terribili litigate e riappacificazioni quasi immediate, come se non fosse successo niente, accompagnate da una motivazione argomentata con candore: “M’è frata”.
Il valore della famiglia come superiore a tutto, la vera certezza che dispensavi, senza reticenze. Adesso sono qui a parlare di te come di qualcuno che è passato….. Ti ho rivisto serena nella bara.
Non ti avevo mai visto così, in vita non ti saresti concessa agli occhi degli altri “ammutata”, perché  avresti voluto comunque dire la tua.  Quella bara, più che di fiori, era ricolma d’affetto, piangevano tutti, ognuno raccontava qualcosa, mentre la casa perdeva l’anima, estirpata con forza da un carro funebre.
E’ difficile pensare a come sarà la prossima estate a Satriano…. Mi hai sempre raccontato di quello che ha fatto nonna Rachele…Beh, sarebbe stata molto orgogliosa di vedere quello che hai fatto tu. Non ho avuto la fortuna di conoscerla, ma forse avrebbe detto: “Asta vota Paolina mi superau!”. E tu probabilmente non avresti avuto l’impertinenza di darle ragione, l’avresti salutata rispettosamente con “il voi” e saresti tornata nella tua stanza. In quella stanza, poco prima di andarmene, ho visto una foto in cui mi tenevi in braccio da piccolo. Non ho resistito, l’ho presa e l’ho portata con me. A te non sarebbe piaciuto, mi avresti detto “Dassala rà”. Ti ho disobbedito, come tante altre volte. Neanche stavolta saresti riuscita ad arrabbiarti e con uno sguardo di rimprovero, annegato nell’immensità dell’affetto, avresti detto: “Guala e patritta!”.
Buon viaggio, zia
Antonio

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