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Hamba kakuhle, Nelson

Era il 1993 l'anno in cui andai in Sudafrica.
Si trattava di un viaggio felice, andavo a trovare mio nonno che da anni lavorava lì.
Ero un ragazzino italiano cicciottello, con la testa farcita di mito americano: Chicago Bulls, videogiochi, Arma Letale, hot dog e telefilm.
In Sudafrica speravo quindi di trovare la mia piccola America, quanto di più vicino a quella cultura potessi immaginare.
Gli Stati Uniti erano anche il paese di Jordan, dei Robinson, di Arnold, di quei neri dalla faccia simpatica o dalle capacità atletiche eccezionali che avevano accompagnato i miei monotoni pomeriggi catanzaresi.
Avevo  una certa idea di cosa fosse l'integrazione e pensavo che i neri d'America fossero integrati, non abbastanza da comandare a Washington D.C., ma sufficientemente per poter iniziare a divertirsi insieme ai bianchi.
Avevo studiacchiato, al livello elementare, le parole di Marthin Luther King grazie a una straordinaria maestra e, anche durante i primi anni delle medie, ero stato sensibilizzato al tema del razzismo.
Andava di moda in Italia in quegli anni; a scuola, come extra, si parlava di AIDS e razzismo.
Adesso credo se ne parli troppo poco.
Per farla breve, da semplice ex bimbetto attento e curioso, sapevo qualcosa dell'apartheid; non grazie ai racconti di mio nonno, che avevo "visto" solo una volta in Italia nel 1983 (avevo due anni, un'età che nessuno ricorda di aver vissuto), ma grazie alla scuola e alla sensibilità dei miei genitori.
Avevo sentito anche parlare di Mandela, ma non abbastanza, perché questa piccola colonia culturale degli States in cui viviamo si nutriva di miti "a stelle e strisce".
Insomma, affrontai il viaggio in Sudafrica alla ricerca della mia America.
Chiedevo continuamente informazioni sui Phoenix Suns ai  parenti; chiedevo di hot dog e grattacieli. Per calmarmi, mi regalarono una mazza, un guantone e una palla da baseball. Ecco, avevo la mia America anche in Sudafrica.
Quel viaggio fu bellissimo perché riuscii a conoscere mio nonno, di cui avevo sempre e solo sentito parlare (del 1983 neanche l'ombra di un ricordo...).
Fu bellissimo perché, una volta placata la mia sete di consumismo, alzai gli occhi verso il cielo sudafricano; ammirai la vegetazione, le tartarughe non ninja , i grattacieli (allora c'erano!) e le balene che si incontravano nei pressi del Capo di Buona Speranza.
Rischiai di essere morso da un mamba (fa molto Kill Bill, ma è vero), mangiai carni eccezionali nel corso di barbecue-maratona organizzati da mio nonno e insieme a lui, e a mio padre, feci lunghissimi giri in macchina per le strade della "fine del mondo": questo era il Sudafrica  sulla cartina De Agostini a scuola, la fine prima dell'universo di ghiaccio chiamato Antartide.
Le strade erano enormi, diritte, sterminate, graffiavano le superfici semi-desertiche per sfociare in città sempre differenti: piccoli borghi postcoloniali, città dormitorio per lavoratori o mini-metropoline all'americana (ancora l'America!).
Ogni tanto eludevo il controllo dei miei, avevo 12 anni.
Allora vedevo passare di sfuggita, sulle strade, delle ombre.
Poi vedevo altre ombre indirizzarsi verso piccole casette. Erano vestite da servitù, come la Mami di "Via col vento".
Vedevo tantissime ombre dentro le baracche che affiancavano per chilometri le route.
O ancora ombre nei vicoli con poca luce di Cape Town.
Erano neri, migliaia di neri nell'ombra, che non esistevano nella vita dei bianchi.
Erano tenuti fuori dalla vita vissuta, avevano una funzione, come l'auto in  garage: quando non serve, non la vedi.
Non capivo, allora mi appostavo dietro il cancello della casa di mio nonno per cercare di vedere passare più ombre possibili oppure facevo finta di andare a dormire per sentire camminare o vivere "le ombre".
Era il 1993, Mandela, scoprii dopo, era uscito già da 3 anni.
L'OMBRA era uscita.
Il Sudafrica stava cambiando, dicevano tutti.
A me sembrava assurdo già allora, nella mia mente da ragazzino benestante non riuscivo a immaginare condizioni peggiori di quel vivere fintamente nella discrezione, ma in realtà nel garage del mondo.
Tornato a Catanzaro, arrivai come "quello che era stato in Sudafrica".
Passai circa tre mesi a raccontare la mia esperienza a scuola e due anni dopo, grazie alle prime fervide velleità intellettuali da liceale, mi dedicai alla conoscenza di Mandela, memore di quel viaggio di luci e "ombre".
Per me è sempre stato, dal 1993, l'uomo che ha portato la luce, quello che, con 27 anni di prigionia, ha levato dall'ombra milioni di sudafricani, ha ridato vita a un paese adesso in crescita: un boom fisiologico perché oggi, oltre alle immense risorse naturali, utilizza appieno le qualità intellettuali dei Suoi abitanti e non solo di una sparuta minoranza di immigrati bianchi che si arrogavano il diritto di tenere nell'ombra l'anima del Sudafrica.
Non sta a me sottolineare ulteriormente i meriti di Mandela che hanno avuto risonanza planetaria e hanno influito su eventi epocali come l'elezione di Obama negli States (per una volta dopo il Sudafrica!) e, più in generale, sull'emancipazione di moltissime ombre nel mondo.
Dopo aver dato tanta luce, si è spento ieri, nella sua grandezza.
Hamba kakuhle, Nelson.


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