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"The Post" scriptum

Oltre la retorica della guerra in Vietnam.

Oltre l'ennesima pellicola celebrativa del giornalismo a stelle e strisce, Mecca della libertà di espressione e porto felice per reporter che non smettano di placare un'insaziabile fame di inchieste.

Oltre la complicità amorosa tra colleghi troppe volte vista con un Robert Redford qualsiasi, ad esempio.

Oltre la critica alla politica contemporanea, al trumpismo d'assalto e ben oltre la retorica "iperbuonista" e agiografica su JFK.

Insomma, al di là del muro imposto dal cinema americano da DVD, forzato tra la condanna di budget faraonici e aspettative da Titanic, si issa in tutta la sua straordinaria normalità "The Post": un film diretto dal ragazzo di E.T., Lo squalo, Schindler's list, quello con il berrettino e la faccia da Nanni Moretti dopo una seduta di psicoterapia.
Steven got it, l'ha fatto di nuovo.
Un bel film, una narrazione asciutta e coinvolgente che premia lo straordinario talento - non scoperto certo adesso -  di Tom Hanks (che ha dismesso la faccia da eterno "Forrest Gump") e la diva del cinema mondiale, sua maestà Meryl Streep.

Ok, c'è la frenesia della redazione open space all'americana, con il ticchettio incessante delle macchine da scrivere, l'ansia di arrivare in ritardo per un pezzo e scambi di battute di un'arguzia già percepita, ma c'è anche un plot continuo, lineare, convincente.

La storia di base è quella dei "Pentagon papers" che Il New York Times e il Post, appunto, riuscirono a far conoscere al grande pubblico, sensibilizzando le masse contro la partecipazione statunitense al  conflitto in Vietnam. Qualcosa che sta in mezzo all'attuale condizione della CNN ("You are fake news", così pare li abbia apostrofati The Donald) e il buon Edward Snowden.

Ci sono procuratori federali inferociti, politici che vorrebbero nascondere sotto il tappeto tante sottovalutazioni e troppi errori strategici e persino praticanti giornalisti svelti e pronti a giocare la loro partita. Ci sarebbe tutto per dire:"Ok, l'ho già visto!"

Eppure c'è qualcosa nell'espressività di Meryl Streep, nella forza gentile del suo personaggio, che riesce a emozionare anche lo spettatore più scafato.
C'è qualcosa nell'insolenza e nel coraggio di Tom Hanks che possono essere inspiring almeno quanto il famoso discorso di Steve Jobs.
C'è infine la grandezza assoluta, da Ulisse ai giorni nostri, di difendere un'idea, perché i protagonisti sono convinti sia quella giusta, proprio come predicava il reverendo King.

Il meglio dell'America, per come la intendiamo noi (un po' colonizzati culturalmente, ma tutto sommato felici).
L'America delle battaglie di Ginsberg, degli aneddoti della Pivano, del nobel Bob Dylan e dei Don De Lillo, con un' irriverenza rispetto all'ordine costituito che profuma di Philip Roth.

L'America che vorremmo sempre per stare tranquilli, illudendoci che ci siano watchdog del potere in grado di tutelare le nostre libertà fondamentali.
Un film che parla del 1971 e ci fa riflettere sull'interpretazione del lavoro, degli ideali, della vita oggi.

Più amarezza o più entusiasmo? Decidete voi, ma andatelo a vedere.

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